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n°04 di Franco Luciani

 

Ireland-England 1973

 

 

 

Sunday Rugby Sunday



 

 

 

Dublino, Repubblica d'Irlanda, sabato 10 febbraio 1973. Irlanda-Inghilterra, quarta partita del Torneo delle Cinque Nazioni. Non è Sunday, in realtà. È Saturday, ma a quella “domenica di sangue” di poco più di un anno prima, è strettamente legato.

Derry, Irlanda del Nord, domenica 30 gennaio 1972. Il Primo Battaglione del Reggimento Paracadutisti dell'esercito britannico apre il fuoco contro una corteo di manifestanti per i diritti civili, tutti disarmati. Tredici persone, molte delle quali molto giovani, sono colpite a morte, mentre una quattordicesima morirà quattro mesi più tardi per le ferite riportate. È la “Bloody Sunday”, la “domenica di sangue”.

Dopo quella strage, nei quartieri cattolici di Derry e di altre città dell'Irlanda del Nord sono in molti a decidere di unirsi all'IRA, l'organizzazione paramilitare che si batteva per la fine della presenza britannica in Irlanda del Nord e la riunificazione con la Repubblica d'Irlanda. Da quella domenica in poi una lunga serie di attentati terroristici organizzati dall'IRA porterà il 1972 al triste record di anno con più vittime in Irlanda e Gran Bretagna.

La rivalità tra Irlanda del Nord e Regno Unito risaliva al 1922: in quell'anno, infatti, al termine guerra anglo-irlandese per l'indipendenza dell'Irlanda dalla Gran Bretagna, venne istituita la Repubblica d'Irlanda (Eire) con capitale Dublino, a maggioranza cattolica; le sei contee dell'Irlanda del Nord (Ulster), a maggioranza protestante, rimasero invece unite al Regno Unito. La minoranza cattolica iniziò allora a reclamare l'indipendenza dell'Ulster dalla Gran Bretagna e l'unificazione all'Eire.

In barba ai confini stabiliti nel 1922, alla differenza politica tra repubblica e monarchia e alla divisione religiosa tra cattolici e protestanti, nel rugby l'Irlanda è unita. Esiste una sola nazionale d'Irlanda, quella in maglia verde, con il trifoglio sul petto.

E nel 1972, in quel terribile 1972, è proprio il XV irlandese la squadra da battere. Vince in Francia e in Inghilterra, ma il suo torneo finirà lì. Scozia e Galles si rifiuteranno infatti di andare a Dublino per disputare le loro rispettive partite contro la nazionale del trifoglio: per ogni suddito di suo maestà, percepito dai terroristi dell'IRA come un nemico, una trasferta nell'isola irlandese sarebbe stata troppo pericolosa. In quell'anno, ad aggiudicarsi il Cinque Nazioni sarà la nazionale scozzese, ma sarà una vittoria mutilata, viziata da quelle due partite non disputate in terra d'Irlanda.

Nell'edizione successiva, quella del 1973, tocca agli inglesi, proprio agli acerrimi nemici dell'IRA, andare a giocare a Dublino. Molti tra i giocatori inglesi temono di essere al centro di possibili attentati terroristici e vogliono disertare la trasferta nella capitale dell'Eire. Qualche settimana prima del match, il capitano dell'Irlanda, la seconda linea Willie John McBride, decide di incontrare e parlare a tu per tu con i due giocatori più rappresentativi dell'Inghilterra, l'ala David Duckham e il tallonatore - nonché capitano - John Pullin, per convincerli a far scendere in campo la squadra inglese. A McBride bastano probabilmente un paio di pinte per raggiungere il suo obiettivo: i due inglesi, suoi compagni di squadra nel tour dei British Lions del 1971 e anche nella storica partita tra Barbarians e All Blacks (quella della meta più bella di tutti i tempi), disputatasi solo qualche giorno prima, il 27 gennaio 1973, decidono che si deve andare a Dublino. Alcuni giocatori potenzialmente a rischio (Nigel Horton, agente di polizia, e Peter Larter, ufficiale della Royal Air Force) decidono di non prendere parte alla trasferta, ma il resto della squadra, capitanata da Pullin, parte per l'Irlanda.

Dublino, Repubblica d'Irlanda, sabato 10 febbraio 1973. Irlanda-Inghilterra, quarta partita del Torneo delle Cinque Nazioni. 49.000 persone presenti al Lansdowne Road. Chi può sapere se fra essi si nasconde qualche terrorista dell'IRA?

Le squadre stanno per fare il loro ingresso sul terreno di gioco. La tensione è altissima. I giocatori entrano gli uni accanto agli altri, con gli irlandesi quasi a proteggere gli inglesi. Contro ogni previsione, contro ogni aspettativa, contro ogni paura, all'ingresso dei giocatori dalle tribune esplode solo un fragoroso , incessante e incredibile applauso per i giocatori inglesi. La standing ovation durerà cinque lunghissimi minuti e la banda di Dublino dovrà aspettarne la fine prima di poter intonare gli inni. La partita sarà vinta dagli irlandesi 18-9, ma il risultato, oggettivamente, non sarà di alcuna importanza. Ciò che contava era altro, come ammise lo stesso capitano inglese Pullin: «Non avremo giocato un granché, ma almeno a giocare ci siamo venuti».

Per uno scherzo della sorte, il Torneo delle Cinque Nazioni del 1973 fu vinto a pari merito da tutte e cinque le contendenti, con una vittoria e tre sconfitte ciascuna. Fu l'unico caso nella storia.

Ma quella partita, quella che ho chiamato “Rugby Sunday” anche se era sabato, ha dimostrato ancora una volta che il rugby unisce ed è più forte di chi divide.

 

Franco Luciani

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Questa storia è stata raccontata su Rai Radio 1, durante la trasmissione “LA SFERA MAGICA” del 31/08/2013, a cura di Alex Messina e Fabrizio Zupo, giornalista del Mattino di Padova.

Per ascoltare la puntata radiofonica (a partire dal minuto 06:40 - durata: 30 minuti circa), vai al sito:

http://www.rai.it/dl/radio1/popupaudio.html?t=LA%20SFERA%20MAGICA%20del%2031%2F08%2F2013&p=LA%20SFERA%20MAGICA%20del%2031%2F08%2F2013&d=&u=http%3A%2F%2Fwww.radio.rai.it%2Fpodcast%2FA42665763.mp3

Al termine della trasmissione (a partire dal minuto 35:10) potrete ascoltare anche la bella canzone degli U2 dal titolo “Sunday Bloody Sunday”.

 

 

n°03 di carlo Della Libera


locandina - la partita lenta

 

 

 

 

 

Rugby da Oscar:


“La partita lenta” (2009)

 

Regia
Paolo Sorrentino

Cast
Monica Dugo, Renato Gnani, Roberto Bernardini

 

 

 

 

 

 

 

 

Anche un regista di talento internazionale come Paolo Sorrentino, recente premio Oscar, ha subito durante il suo percorso il fascino del rugby.

Aldilà dei significati più profondi e del riuscitissimo risultato artistico, premiato anche al prestigioso Raindance Film Festival di Londra nel 2009, il cortometraggio riesce a cogliere alcuni aspetti che vanno oltre i cliché epici spesso legati alle produzioni che hanno come oggetto temi sportivi. Sorrentino ci accompagna in un viaggio in cui possiamo riconoscere, senza retorica, le nostre emozioni vissute ogni domenica, spesso schiacciati sui sedili di una piccola utilitaria proprio come nel cortometraggio…

E quanti di noi non hanno cercato tra il pubblico, o dentro di sé, uno sguardo familiare prima del fischio di inizio o dopo aver schiacciato una meta?

L'opera di Sorrentino è un'ennesima prova, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il rugby è davvero uno sport da Oscar!

"La partita lenta" è stato prodotto nell'ambito dell'edizione del 2009 del progetto cinematografico "perFiducia" promosso da Intesa Sanpaolo.

 

Carlo Della Libera

 

Guarda il cortometraggio (durata 10 minuti)

http://www.perfiducia.com/#/paolo-sorrentino/film

n°02 di adriana Scalise


Copertinaweb

 

 

 

All Blacks Don't Cry

A Story of Hope

 

 

 

A partire dall'affermazione auto-confutante del titolo, il libro di John Kirwan ci appare come una sorta di diario interiore, dove gli eventi realmente accaduti fungono da semplice contrappunto cronologico a un racconto autobiografico la cui struttura assomiglia piuttosto a quella di una fiaba.

Il “Protagonista”, un giovane aitante e coraggioso, pieno di speranze, parte alla scoperta del mondo, un mondo fatto di conquiste e di realizzazioni, ma - ahimè! - lungo la strada egli incontra un grosso ostacolo: è l'”Antagonista”, quello che Kirwan definisce The black monster, The big D, ma anche più sottilmente The ugly mate. Come avviene nelle fiabe, anche il nostro cavaliere si appresta a combattere contro il “Drago”, ma questi è insidioso, sottilmente malvagio. Talvolta si palesa, talaltra si rende invisibile, sempre in agguato, pronto a tendere le sue trappole e a colpire inaspettatamente. Il coraggio e la forza della gioventù non sono sufficienti, per vincere il perfido “Drago” occorre esperienza e astuzia. Allorché - stremato dai combattimenti il Protagonista oramai sta per arrendersi - accade qualcosa di extra-ordinario, proprio come succede nelle favole al sopraggiungere di un “evento” che si rivela salvifico. Accade così anche nel racconto di JK al subentrare dell'”Accettazione”, termine che per il nostro autore non significa arrendevolezza ma “consapevolezza” della propria condizione, a cui farà seguito una coraggiosa, quanto necessaria richiesta di aiuto. Da questo momento in poi, quand'anche ancora lunga e disseminata da ostacoli, in fondo alla strada di questo Journey to wellness sarà possibile intravedere una flebile luce che infonde speranza al nostro eroe e lo invita a proseguire fino alla definitiva vittoria del “Bene sul Male”. L'autore e protagonista della storia abbandona quindi il tono cupo, ripetitivo, che contraddistingue lo stile della prima parte del libro e, mentre gli eventi si susseguono, costellati da tanti successi e qualche insuccesso, il ritmo del racconto si fa più arioso, più lieve. The black monster verrà definitivamente sconfitto, il prode cavaliere sposerà la sua bella principessa e insieme vivranno felici e contenti. Come tutte le fiabe, anche questa ha una sua “morale”: per raggiungere una vita pienamente soddisfacente è necessario dare ascolto alle proprie emozioni, imparare ad apprezzare le piccole gioie della vita e amare il prossimo di un sentimento sincero: un amore “incondizionato”.
La metafora della fiaba ci è servita per presentare con tono leggero un libro che al contrario è molto serio e profondo, in cui l'autore, ex campione degli All Blacks e oggi allenatore di livello internazionale, racconta la sua personale “disavventura”, alle prese con la depressione mentale, malattia di cui egli ha sofferto per anni e dalla quale ne è uscito vittorioso.

Il libro si chiude con un'intervista di Kirwan a Elliot Bell, esperto psicologo del Servizio Sanitario Nazionale Neozelandese, organismo che ha promosso un'importante campagna pubblicitaria per la quale Kirwan ha anche prestato la sua immagine. In forma semplice e dialogica ci vengono forniti alcuni suggerimenti pratici su come riconoscere e affrontare questa malattia che non vuole e non deve essere mai più considerata un tabù.

 

Adriana Scalise

 

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n°01 Phaininda


Rugby Club copertina

 

 

 

Phaininda


Il rugby ante litteram

inventato dai greci

 

Il più anglosassone dei giochi ha in realtà origini mediterranee. Lo conferma un'inedita ricerca che svela i segreti della "phaininda", antenato "dell'harpastum" latino. A farlo è Franco Luciani, studioso di Ca' Foscari e mediano di mischia della Tarvisium.

 

 

Intervista tra Gian Domenico Mazzocato e Franco Luciani
pubblicata in Rugby Club, Anno 6°
n. 20, maggio 2012, pp. 34-37

 

 

Rilievo ateniese

Rilievo ateniese in marmo con scena ricollegata ad una fase di gioco dell'arpastón (VI-IV sec. a.C.
Immagine tratta da R. Patrucco, Lo sport nella Grecia antica, Firenze 1972, p. 342, fig. 167).

 

G.D.M.: Come nasce questo tuo interesse per un aspetto così particolare dell'antichità?

F. L.: Mi sono imbattuto qualche tempo fa in un libro stampato nel 1995 all'interno della collana “Museo della Civiltà Romana”. Il volume è dedicato ai giochi e ai giocattoli dell'antica Roma e si fa riferimento a uno sport chiamato harpastum, che doveva essere particolarmente apprezzato da Marziale che lo cita in quattro suoi epigrammi, nel quarto, settimo e quattordicesimo libro. Marziale è forse l'unico autore citato quando si parla di questo argomento, ma bisogna subito dire che c'è molto altro. Propriamente harpastum è un tipo di palla - piccola, dura, ripiena di lana - che si strappa all'avversario, dal verbo greco arpázo, che significa appunto “portar via a forza”. Molière se n'è ricordato per il suo avaro che si chiama proprio Arpagone. In due epigrammi si parla di harpasta pulverulenta, “palloni polverosi”, e lì è scattato tutto. Non ho potuto non accostare l'espressione del poeta latino all'immagine dei campi spelacchiati e sbucciaginocchia su cui per anni ci siamo allenati noi della Tarvisium. E poi anche un altro epigramma, così vicino al rugby. Si parla sempre di polvere, del grosso collo degli atleti e di Anteo, il gigante che Ercole uccise tenendolo sollevato dal terreno. Infatti Anteo, figlio della Terra, ogni volta che veniva messo giù e toccava il suolo veniva istantaneamente rivitalizzato da sua madre. Ercole lo dovette tenere sollevato per farlo morire. Diciamo un dangerous tackle ante litteram.

G.D.M.: Dell'harpastum sapevamo, ma poi?

F. L.: Beh, mi sono chiesto, e in greco? E ho scovato un bellissimo testo di Epitteto, filosofo stoico vissuto tra I e II secolo d.C. Nel secondo libro delle Diatribe parla di processi e della fragilità dell'uomo che si deve barcamenare tra le difficoltà della vita. E usa questo gioco come straordinaria immagine della vita stessa. Dice: “Si comportano così anche quelli che giocano l'arpastón. Nessuno di loro fa contestazione sulla palla, se sia buona o cattiva, bensì su come la si lancia e la si prende. [...] Ma quando si prende o si lancia, da ansiosi e impauriti, che cosa diventa il gioco? Come si potrà mantenere la fermezza, come si potrà vedere e valutare il resto del gioco? Uno dirà «lancia», l'altro «non lanciare», un terzo «non lanciarla in alto». E il gioco non è più tale perché è diventato una zuffa”. Immagine e realtà si sovrappongono più e più volte. E Socrate, conclude Epitteto, che sapeva destreggiarsi nei tribunali, “sapeva giocare con la palla”: potremmo definirlo dunque “un buon giocatore di arpaston”. D'altronde, non diciamo anche noi, forti della nostra cultura rugbistica, che un uomo abile e di successo “sa portare la palla in meta”?

G.D.M.: L'harpastum come immagine dei processi? Ci si comporta in tribunale come su un terreno di gioco?

F. L.: Epitteto è esplicito. E addirittura ammaliante, dipingendo la figura di Socrate, autentico re del tribunale: “Giocava come con un arpástion (variante di arpastón, n. d. a.). E che arpástion c'era in campo in quell'occasione? Si trattava del vivere, dell'essere in catene, dell'essere mandato in esilio, del bere il veleno, del perdere la moglie e del lasciare i figli orfani. Tali questioni erano in campo e con questo si confrontava e tuttavia giocava e maneggiava la palla con bravura. Allo stesso modo dobbiamo anche noi avere da un lato la sollecitudine del giocatore più bravo, dall'altro l'indifferenza che ha il giocatore per l'arpastion”.

G.D.M.: Ma Epitteto parla pur sempre di harpastum. E la phaininda?

F. L.: È il nome greco dello stesso sport. Ce lo dice Ateneo di Naucratis, uno scrittore del II sec. d.C. Ateneo ci suggerisce proprio che harpastum e phaininda fossero la stessa cosa. In realtà erano forse due discipline poco diverse tra di loro che finirono per confluire l'una nell'altra e identificarsi. Anche qui possiamo lasciarci prendere dall'immaginazione pensando alla varietà di giochi che si praticano con una palla ovale, dal rugby al football australiano. Certo erano entrambe discipline dominate da una grande animosità, magari violente. Prevedevano come base il contatto fisico con l'avversario. Per il resto il gioco si basava su passaggi, lanci, ricezioni, finte da parte del portatore di palla. Sembra di capire che il pallone era portato in mano per tratti più o meno lunghi. Gli studiosi hanno provato a formulare ipotesi sullo scopo di un simile gioco. Roberto Patrucco in un suo libro del 1972 (“Lo sport nella Grecia antica”) ipotizza che lo scopo fosse quello di portare la palla, sempre presa e toccata esclusivamente con le mani, oltre una linea di difesa della squadra avversaria.

G.D.M.: Stavano davvero così le cose? L'harpastum-phaininda era davvero il progenitore del rugby?

F. L.: Le forzature non sono mai una buona cosa e la voglia di far apparire qualcosa “così come si spera che sia” è una cattiva consigliera. Ma analogie e contiguità sono evidenti. E del resto le testimonianze, che sono peraltro non moltissime e non molto ampie, sembrano collimare con le ipotesi formulate e dunque con le finalità del gioco del rugby. Autorizzano una concreta ipotesi in questo senso. Come ci dice Antifane.

G.D.M.: Ne parliamo dopo. Intanto qual è l'origine del termine phaininda?

F. L.: Ateneo avanza anche una fantasiosa etimologia, due anzi, del termine. Senza spiegare molto, a dire il vero. Dice che la parola viene dal modo di lanciare la palla (in greco áphesis) o forse anche dal nome del suo inventore, il maestro di ginnastica Fainestio. I lessicografi antichi lo collegano invece con un verbo che significa “ingannare”, perché i giocatori facevano le finte per irritare gli avversari e lanciavano grida per imbrogliare, per disorientare. Sempre l'avversario, naturalmente. A me anche questa pare una spiegazione insufficiente e infatti gli studiosi moderni la contestano. Ma non posso fare a meno di pensare a quella chiamata assassina di Diego Dominguez ai mondiali sudafricani del 1995 quando giocò contro i suoi ex compagni Pumas. Lui chiamò in spagnolo una palla che era in mano agli argentini, se ne impadronì e costruì la meta più rapinosa che si ricordi. In quel “grido imbroglione” ci mise tutta la sua storia personale e la rabbia per essere stato bollato come professionista e squalificato dalla federazione argentina.

G.D.M.: Quella di Ateneo è l'unica traccia della phaininda?

F. L.: Proprio no. Anzi Ateneo ci manda, come dicevo prima, a rileggere Antifane, un commediografo attico del IV sec. a.C. Antifane produce un testo straordinario e suggestivo che vale la pena di leggere per intero. Ripeto siamo 350 anni prima di Cristo. “Presa la palla, si divertiva passandola a uno, mentre evitava un altro”. Il passaggio e la finta. Poi c'è anche la percussione: “colpì uno, e un altro lo sollevò all'indietro”. Questo potrebbe essere un placcaggio, forse anche pericoloso, come quello descritto da Marziale. Poi ecco le grida di cui si diceva: “con grida acute «fuori, lungo, vicino a lui, sopra di lui, giù, su, corta, ripassala indietro…»”. Ora, non è per dire che questo è proprio il rugby, ma certamente la suggestione è grande. A me queste grida sembrano le parole che urlo alla mia mischia e poi alla mia apertura quando gioco col numero 9 sulle spalle. E dello stesso commediografo abbiamo un'ulteriore testimonianza: “Ahimè sventurato, che male al collo”. Il particolare del collo affaticato colpisce molto gli scrittori. Anche Marziale, come abbiamo visto: il dolore di un avanti, un pilone o magari un tallonatore.

G.D.M.: E il giocatore che caratteristiche doveva avere?

F. L.: Si trattava certamente di un gioco molto completo e formativo, tanto da meritarsi le lodi di Galeno di Pergamo, il medico greco del II-III sec. d.C. le cui impostazioni scientifiche hanno dominato la medicina europea per più di mille anni. E come deduciamo anche da un rilievo ateniese, interpretato come una fase calda del gioco dell'arpastón, gli atleti dovevano essere fisicamente molto dotati, in grado di correre velocemente, di contrastare l'avversario. Una combinazione di forza e agilità.

G.D.M.: Conclusioni?

F. L.: Ci troviamo di fronte a uno sport (o più sport somiglianti tra loro) che richiama molto, moltissimo il rugby, ma che non è il rugby. Non bisogna farsi trascinare. La palla era piccola, atta a essere trattata con le mani, ma non è affatto detto che fosse ovale. La regola fondamentale del passaggio indietro non apparteneva certo all'harpastum-phaininda. Non c'erano porte e non vigeva la codificazione di regole, anche se alcuni studiosi moderni hanno tentato di ipotizzarlo. Lo sport presso i Greci era qualcosa di spontaneo, semplice, molto libero, lasciato a interpretazioni di gruppi locali e perfino di singoli. Addirittura all'inventiva del momento. Era una libera espressione della corporeità. Ateneo riporta le parole di Damosseno il quale sottolinea, parlando dei giochi di palla, l'armonia dei movimenti. Davanti a una manifestazione sportiva, rievoca: “tutti insieme gridavamo. Che armonia che carattere, che stile”. In conclusione, dico insomma che mi piace ancora credere alla leggendaria ed estemporanea invenzione del rugby da parte di un ribelle e geniale studente dell'Università di Rugby, ma mi piace altrettanto pensare che i germi di uno sport così nobile risiedessero nell'animo umano fin dall'antichità.

G.D.M.: E tu, nonostante gli avvertimenti di Seneca, riesci ancora a coniugare lo studio delle lettere con uno sport come il rugby?

F. L.: È vero. In un'epistola a Lucilio, Seneca sconsiglia a chi si occupa di litterae gli sforzi fisici troppo intensi, suggerendo di dedicarsi al massimo ad attività poco impegnative, quali la corsa e i salti. Nonostante questo, però, finché il tempo e le energie a mia disposizione (oltre agli infortuni, purtroppo sempre più frequenti) me lo consentiranno, continuerò a giocare. Il rugby, d'altronde, significa tantissimo per me.