CIVFIRCIV  Facebbok-tarvisium   YouTube-Tarvisium      

n°01 Phaininda


Rugby Club copertina

 

 

 

Phaininda


Il rugby ante litteram

inventato dai greci

 

Il più anglosassone dei giochi ha in realtà origini mediterranee. Lo conferma un'inedita ricerca che svela i segreti della "phaininda", antenato "dell'harpastum" latino. A farlo è Franco Luciani, studioso di Ca' Foscari e mediano di mischia della Tarvisium.

 

 

Intervista tra Gian Domenico Mazzocato e Franco Luciani
pubblicata in Rugby Club, Anno 6°
n. 20, maggio 2012, pp. 34-37

 

 

Rilievo ateniese

Rilievo ateniese in marmo con scena ricollegata ad una fase di gioco dell'arpastón (VI-IV sec. a.C.
Immagine tratta da R. Patrucco, Lo sport nella Grecia antica, Firenze 1972, p. 342, fig. 167).

 

G.D.M.: Come nasce questo tuo interesse per un aspetto così particolare dell'antichità?

F. L.: Mi sono imbattuto qualche tempo fa in un libro stampato nel 1995 all'interno della collana “Museo della Civiltà Romana”. Il volume è dedicato ai giochi e ai giocattoli dell'antica Roma e si fa riferimento a uno sport chiamato harpastum, che doveva essere particolarmente apprezzato da Marziale che lo cita in quattro suoi epigrammi, nel quarto, settimo e quattordicesimo libro. Marziale è forse l'unico autore citato quando si parla di questo argomento, ma bisogna subito dire che c'è molto altro. Propriamente harpastum è un tipo di palla - piccola, dura, ripiena di lana - che si strappa all'avversario, dal verbo greco arpázo, che significa appunto “portar via a forza”. Molière se n'è ricordato per il suo avaro che si chiama proprio Arpagone. In due epigrammi si parla di harpasta pulverulenta, “palloni polverosi”, e lì è scattato tutto. Non ho potuto non accostare l'espressione del poeta latino all'immagine dei campi spelacchiati e sbucciaginocchia su cui per anni ci siamo allenati noi della Tarvisium. E poi anche un altro epigramma, così vicino al rugby. Si parla sempre di polvere, del grosso collo degli atleti e di Anteo, il gigante che Ercole uccise tenendolo sollevato dal terreno. Infatti Anteo, figlio della Terra, ogni volta che veniva messo giù e toccava il suolo veniva istantaneamente rivitalizzato da sua madre. Ercole lo dovette tenere sollevato per farlo morire. Diciamo un dangerous tackle ante litteram.

G.D.M.: Dell'harpastum sapevamo, ma poi?

F. L.: Beh, mi sono chiesto, e in greco? E ho scovato un bellissimo testo di Epitteto, filosofo stoico vissuto tra I e II secolo d.C. Nel secondo libro delle Diatribe parla di processi e della fragilità dell'uomo che si deve barcamenare tra le difficoltà della vita. E usa questo gioco come straordinaria immagine della vita stessa. Dice: “Si comportano così anche quelli che giocano l'arpastón. Nessuno di loro fa contestazione sulla palla, se sia buona o cattiva, bensì su come la si lancia e la si prende. [...] Ma quando si prende o si lancia, da ansiosi e impauriti, che cosa diventa il gioco? Come si potrà mantenere la fermezza, come si potrà vedere e valutare il resto del gioco? Uno dirà «lancia», l'altro «non lanciare», un terzo «non lanciarla in alto». E il gioco non è più tale perché è diventato una zuffa”. Immagine e realtà si sovrappongono più e più volte. E Socrate, conclude Epitteto, che sapeva destreggiarsi nei tribunali, “sapeva giocare con la palla”: potremmo definirlo dunque “un buon giocatore di arpaston”. D'altronde, non diciamo anche noi, forti della nostra cultura rugbistica, che un uomo abile e di successo “sa portare la palla in meta”?

G.D.M.: L'harpastum come immagine dei processi? Ci si comporta in tribunale come su un terreno di gioco?

F. L.: Epitteto è esplicito. E addirittura ammaliante, dipingendo la figura di Socrate, autentico re del tribunale: “Giocava come con un arpástion (variante di arpastón, n. d. a.). E che arpástion c'era in campo in quell'occasione? Si trattava del vivere, dell'essere in catene, dell'essere mandato in esilio, del bere il veleno, del perdere la moglie e del lasciare i figli orfani. Tali questioni erano in campo e con questo si confrontava e tuttavia giocava e maneggiava la palla con bravura. Allo stesso modo dobbiamo anche noi avere da un lato la sollecitudine del giocatore più bravo, dall'altro l'indifferenza che ha il giocatore per l'arpastion”.

G.D.M.: Ma Epitteto parla pur sempre di harpastum. E la phaininda?

F. L.: È il nome greco dello stesso sport. Ce lo dice Ateneo di Naucratis, uno scrittore del II sec. d.C. Ateneo ci suggerisce proprio che harpastum e phaininda fossero la stessa cosa. In realtà erano forse due discipline poco diverse tra di loro che finirono per confluire l'una nell'altra e identificarsi. Anche qui possiamo lasciarci prendere dall'immaginazione pensando alla varietà di giochi che si praticano con una palla ovale, dal rugby al football australiano. Certo erano entrambe discipline dominate da una grande animosità, magari violente. Prevedevano come base il contatto fisico con l'avversario. Per il resto il gioco si basava su passaggi, lanci, ricezioni, finte da parte del portatore di palla. Sembra di capire che il pallone era portato in mano per tratti più o meno lunghi. Gli studiosi hanno provato a formulare ipotesi sullo scopo di un simile gioco. Roberto Patrucco in un suo libro del 1972 (“Lo sport nella Grecia antica”) ipotizza che lo scopo fosse quello di portare la palla, sempre presa e toccata esclusivamente con le mani, oltre una linea di difesa della squadra avversaria.

G.D.M.: Stavano davvero così le cose? L'harpastum-phaininda era davvero il progenitore del rugby?

F. L.: Le forzature non sono mai una buona cosa e la voglia di far apparire qualcosa “così come si spera che sia” è una cattiva consigliera. Ma analogie e contiguità sono evidenti. E del resto le testimonianze, che sono peraltro non moltissime e non molto ampie, sembrano collimare con le ipotesi formulate e dunque con le finalità del gioco del rugby. Autorizzano una concreta ipotesi in questo senso. Come ci dice Antifane.

G.D.M.: Ne parliamo dopo. Intanto qual è l'origine del termine phaininda?

F. L.: Ateneo avanza anche una fantasiosa etimologia, due anzi, del termine. Senza spiegare molto, a dire il vero. Dice che la parola viene dal modo di lanciare la palla (in greco áphesis) o forse anche dal nome del suo inventore, il maestro di ginnastica Fainestio. I lessicografi antichi lo collegano invece con un verbo che significa “ingannare”, perché i giocatori facevano le finte per irritare gli avversari e lanciavano grida per imbrogliare, per disorientare. Sempre l'avversario, naturalmente. A me anche questa pare una spiegazione insufficiente e infatti gli studiosi moderni la contestano. Ma non posso fare a meno di pensare a quella chiamata assassina di Diego Dominguez ai mondiali sudafricani del 1995 quando giocò contro i suoi ex compagni Pumas. Lui chiamò in spagnolo una palla che era in mano agli argentini, se ne impadronì e costruì la meta più rapinosa che si ricordi. In quel “grido imbroglione” ci mise tutta la sua storia personale e la rabbia per essere stato bollato come professionista e squalificato dalla federazione argentina.

G.D.M.: Quella di Ateneo è l'unica traccia della phaininda?

F. L.: Proprio no. Anzi Ateneo ci manda, come dicevo prima, a rileggere Antifane, un commediografo attico del IV sec. a.C. Antifane produce un testo straordinario e suggestivo che vale la pena di leggere per intero. Ripeto siamo 350 anni prima di Cristo. “Presa la palla, si divertiva passandola a uno, mentre evitava un altro”. Il passaggio e la finta. Poi c'è anche la percussione: “colpì uno, e un altro lo sollevò all'indietro”. Questo potrebbe essere un placcaggio, forse anche pericoloso, come quello descritto da Marziale. Poi ecco le grida di cui si diceva: “con grida acute «fuori, lungo, vicino a lui, sopra di lui, giù, su, corta, ripassala indietro…»”. Ora, non è per dire che questo è proprio il rugby, ma certamente la suggestione è grande. A me queste grida sembrano le parole che urlo alla mia mischia e poi alla mia apertura quando gioco col numero 9 sulle spalle. E dello stesso commediografo abbiamo un'ulteriore testimonianza: “Ahimè sventurato, che male al collo”. Il particolare del collo affaticato colpisce molto gli scrittori. Anche Marziale, come abbiamo visto: il dolore di un avanti, un pilone o magari un tallonatore.

G.D.M.: E il giocatore che caratteristiche doveva avere?

F. L.: Si trattava certamente di un gioco molto completo e formativo, tanto da meritarsi le lodi di Galeno di Pergamo, il medico greco del II-III sec. d.C. le cui impostazioni scientifiche hanno dominato la medicina europea per più di mille anni. E come deduciamo anche da un rilievo ateniese, interpretato come una fase calda del gioco dell'arpastón, gli atleti dovevano essere fisicamente molto dotati, in grado di correre velocemente, di contrastare l'avversario. Una combinazione di forza e agilità.

G.D.M.: Conclusioni?

F. L.: Ci troviamo di fronte a uno sport (o più sport somiglianti tra loro) che richiama molto, moltissimo il rugby, ma che non è il rugby. Non bisogna farsi trascinare. La palla era piccola, atta a essere trattata con le mani, ma non è affatto detto che fosse ovale. La regola fondamentale del passaggio indietro non apparteneva certo all'harpastum-phaininda. Non c'erano porte e non vigeva la codificazione di regole, anche se alcuni studiosi moderni hanno tentato di ipotizzarlo. Lo sport presso i Greci era qualcosa di spontaneo, semplice, molto libero, lasciato a interpretazioni di gruppi locali e perfino di singoli. Addirittura all'inventiva del momento. Era una libera espressione della corporeità. Ateneo riporta le parole di Damosseno il quale sottolinea, parlando dei giochi di palla, l'armonia dei movimenti. Davanti a una manifestazione sportiva, rievoca: “tutti insieme gridavamo. Che armonia che carattere, che stile”. In conclusione, dico insomma che mi piace ancora credere alla leggendaria ed estemporanea invenzione del rugby da parte di un ribelle e geniale studente dell'Università di Rugby, ma mi piace altrettanto pensare che i germi di uno sport così nobile risiedessero nell'animo umano fin dall'antichità.

G.D.M.: E tu, nonostante gli avvertimenti di Seneca, riesci ancora a coniugare lo studio delle lettere con uno sport come il rugby?

F. L.: È vero. In un'epistola a Lucilio, Seneca sconsiglia a chi si occupa di litterae gli sforzi fisici troppo intensi, suggerendo di dedicarsi al massimo ad attività poco impegnative, quali la corsa e i salti. Nonostante questo, però, finché il tempo e le energie a mia disposizione (oltre agli infortuni, purtroppo sempre più frequenti) me lo consentiranno, continuerò a giocare. Il rugby, d'altronde, significa tantissimo per me.