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presa al volo / n°16/2

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lo scudetto dell’‘84

seconda parte

testimonianze, 30 anni dopo, 
dal campo e da bordo campo

- Gibe -

 

orgoglio

Giusto un anno fa Natalino Cadamuro ricordava su queste pagine la vittoria, nel 1973, del nostro primo scudetto. Undici anni dopo la nostra giovanile lo riconquistava per la quinta volta.

A trent’anni di distanza è giusto ricordare quel successo e i fantastici ragazzi che lo colsero, (nella nostra club-house, insieme alle altre, c’è la foto di quella squadra e vi invito ad andarvi a riguardare le loro belle facce sorridenti).

Se, con le spalle al muro, mi trovassi costretto a scegliere uno solo tra i nostri “tricolori” – compreso quello che ho avuto la fortuna di vincere da giocatore – sarebbe quello che indicherei come il più amato, quello il cui ricordo (come educatore) più mi riempie di orgoglio e più mi commuove. Accadde qualcosa di molto particolare e di molto raro nell’incontro di finale giocato a Imola – avversario il Rovigo – il 13 maggio 1984; qualcosa che dimostrò a tutti, in maniera lampante, di quale straordinaria sostanza fosse impastato il pane del nostro rugby e come, nei momenti più drammatici, quella nucleare miscela di stima, fiducia, dedizione, e cristallino affetto per i propri compagni fosse in grado di nutrire lo spirito, compattare le forze e innervare di segrete energie i muscoli e le intenzioni delle nostre magliette rosse.

L’amicizia, autentica e profonda, incarnava il valore fondamentale della nostra concezione del gioco, l’impegno prioritario della nostra lezione, il più importante tra tutti i principi del rugby che volevamo esprimere. In quel pomeriggio romagnolo si evidenziò la più esaltante e inconfutabile prova che avevamo visto bene.
Durante la partita si verificò un episodio destinato a provocare una sorta di terremoto emotivo nei trenta giocatori in campo, che invertì di segno la dolorosa fatalità a cui sembravamo oramai non poter sfuggire e che, per questa ragione, rimane così profondamente inciso nella mia memoria.
Rovigo era – molto più di noi – forte, completo e fisicamente attrezzato (quasi giganteschi, al confronto) e inevitabilmente predestinato al trionfo. Come sempre però l’enorme, incessante e strenuo sacrificio dei nostri riuscì per un tempo infinito, placcando e rilanciando rapidi contrattacchi con i pochi palloni rubati, a frapporre un argine alla loro stra-potenza. Avevamo comunque la sensazione che presto, nelle traballanti mura del fortino, potessero aprirsi brecce definitive.
Nel secondo tempo però uno dei polesani (chissà se avrà mai compreso davvero quale reazione provocò la sua azione sconsiderata) alzò oltre il limite l’asticella dell’intimidazione, commettendo un fallo intollerabilmente cattivo su qualcuno che in quel momento non poteva difendersi.

Attraverso un invisibile filo quel gesto scaricò sulle magliette rosse una tremenda scossa elettrica. Simultaneamente tutte piombarono, in ogni punto del campo, sul proprio avversario diretto come se, a un segnale convenuto e noto a loro soltanto, ognuna, rispettando una ferrea consegna, si fosse sentita chiamata a difendere qualcosa di sacro.
Non fu vera rissa, non volarono colpi proibiti, fu solo come se un indice enorme si fosse improvvisamente levato davanti agli occhi dei rodigini per ammonirli su come nessuno dei nostri potesse essere toccato senza che tutti gli altri si sentissero ugualmente toccati. Mai, né prima né dopo di allora, nelle mille partite che i miei occhi hanno visto ho più assistito a una così fulminea, totale e composta – per quanto rabbiosa- reazione nè potuto apprezzare un così granitico senso di squadra, un così solido cemento amicale.
Non so davvero quanto quello stupefacente tsunami rosso che si riversò sui rossoblù possa aver determinato gli esiti di quell’incontro e di quello successivo, ma con Franco Medusa, con il quale ho condiviso il discreto angoletto dal quale abbiamo “spiato” la partita, ci siamo fatti convinti che qualcosa, di infinitesimale forse, ma egualmente determinante, si sia rotto in quel momento nella fiducia del Rovigo e qualche cosa di sottilmente prepotente abbia invece rigenerato la tempra dei nostri ragazzi che reagirono con furore alla meta subita a pochi minuti dalla fine, su un evidente e non sanzionato placcaggio anticipato sul nostro estremo, che stava raccogliendo al volo la palla.
Nella corsa rabbiosa con cui “Mega” riportò, inseguito dai compagni, il pallone a centrocampo,si esprimeva perfettamente tutta la forza mentale di una grande squadra. Sappiamo come andò a finire: lo scanchenico drop di Ivan che pareggia i conti di quel indimenticabile giornata e poi, quindici giorni dopo, a Padova, la meravigliosa prova di maturità e consapevolezza di un gruppo di ragazzi determinatissimi che ci riportò in paradiso.

Imola ha sempre significato moltissimo per noi, “piccoli maestri” (con infinito rispetto prendo a prestito il titolo del meraviglioso libro di Luigi Meneghello) di quei giovanotti quand’erano ancora ragazzini, ha dato un senso profondo alla nostra opera e resa appassionante la sfida di riuscire a mantenere inalterati nel tempo quei valori fondativi che costituiscono l’orgoglio della nostra appartenenza e la nostra cifra distintiva. Parecchi di loro, dopo aver costituito l’ossatura della squadra che ha prima raggiunto e poi giocato le esaltanti stagioni della serie A, sono diventati ottimi dirigenti, abili educatori, e competenti tecnici della Società e sono oggi impegnati a trasferire ai nuovi Ruggers quello stupendo spirito che li ha resi campioni. Io credo che questo rappresenti, se possibile, una vittoria ancora più importante e più durevole; lo scudetto che non si deve mai scucire!

 

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