presa al volo / n°54
presa al volo / n°54 - 30.10.18
il quarto elemento
(Lettera aperta a Davide e Gaia)
Il rugby mi ha insegnato molte cose. Tra tutte: l’ordine, il rispetto delle regole e l’impegno. Ho pensato a lungo che questi tre elementi bastassero a spiegare l’amore profondo che provo verso il mio sport, le scelte che ho sostenuto per praticarlo e l’importanza che ha avuto nella mia vita. Poi, quasi per caso, ho messo a fuoco un quarto elemento: evidente, quasi banale eppure dimenticato o peggio, dato per scontato.
Nessuno mi ha obbligato a giocare a rugby. Nessuno mi ha mai costretto ad entrare in una squadra invece di un'altra. Le idee si scelgono e poi si inseguono e se necessario si difendono; non si devono (mai) subire né aspettare.
Quando in campo dovevo affrontare gli avversari, in situazioni che si ripetevano sempre diverse, nessuno era in grado di dirmi prima, con precisione, come mi sarei dovuto comportare dato che il rugby, esattamente come la vita, non si può imparare a memoria. Certo, era mia dovere arrivare all’appuntamento preparato, allenarmi con costanza e tenacia, ascoltare con umiltà e fiducia le correzioni e i consigli del mio allenatore, abbracciare la strategia e l’interesse della squadra, ma poi ero io che, di volta in volta, calato nella battaglia, dovevo essere capace in pochi istanti di vedere la specifica situazione, comprenderla e quindi agire nel modo che ritenevo più adeguato. Per me e per i miei compagni. Da solo o con loro.
Non poteva che essere così dato che non solo l’obbiettivo del nostro agire (condizione di appartenenza ad una squadra), ma anche il percorso per raggiungerlo (in sintesi: il nostro ordine) nessuno ce li può imporre a priori.
Piuttosto, c’era un atteggiamento che ci accumunava, non come regola, ma come principio: l’avanzare o meglio, l’andare verso. Con il pallone per raggiungere la meta o senza pallone per fermare gli avversari il più lontano possibile dalla nostra. E quando un compagno era in difficoltà andavamo verso di lui per aiutarlo, nel rispetto di un dovere che era innanzitutto morale. Rimanere fermi ci avrebbe inesorabilmente reso non solo dei perdenti, ma anche dei pavidi egoisti e avrebbe infranto a priori la condizione di appartenenza alla squadra. Bastava che uno non “salisse” e tutto il meccanismo saltava, che uno non aiutasse l’altro come se l’altro fosse lui, e tutti eravamo più deboli. Ecco che allora, la ricerca del nostro ordine avveniva attraverso una volontà comune di espansione, generata ed alimentata dal fluire di una energia interiore che ci rendeva speciali.
Andavamo verso. Costantemente. Con impegno e convinzione. E non solo sul terreno di gioco. Questo generava in noi un profondo piacere, talmente intimo che ancora oggi non trovo le parole per descriverlo. Non era un caso quindi né tantomeno un atto eroico se cercavamo fino all’ultimo di scendere in campo anche quando eravamo infortunati. E se non ce la facevamo o qualcuno meritava di giocare più di noi, non ce ne stavamo a casa: chiedevamo comunque di andare in spogliatoio, in borghese, con il dispiacere nel cuore, ma con la disponibilità di servire con umiltà chi sarebbe sceso in campo. Quello era l’ordine che avevamo scelto e che perseguivamo con tenacia perché ci faceva sentire a posto. Nel bene e nel male. E quando le partite finivano, indipendentemente dal risultato, ci ritrovavamo ogni volta a condividere spontaneamente il sapore di quell’ordine con chi era stato nostro avversario in campo. Mai nemico.
Io sono un rugbista. Mi piace sentirmi speciale. Ma sono convinto che l’energia interiore che ci faceva espandere non sia una proprietà esclusiva dei rugbisti. Al contrario, appartiene a tutti, sportivi e non, presente in ciascuno di noi fin da bambini. Chi ha passato la sua infanzia a giocare sui campi spelacchiati farciti di sassi o in strada, non può aver dimenticato lo spirito che lo animava, l’intensità e la passione che lo spingeva in avanti, con le braccia aperte, faccia al sole, incapace di mollare fino all’ultima goccia di luce come se in gioco ci fosse il campionato del mondo. E ancora, il piacere intenso, pieno, appagante del fare e dello stare insieme, del condividere l’appartenenza.
Vedete, il rugby, in me, ha avuto il merito di mantenere viva questa fiamma.
Un privilegio.
Uno stimolo a continuare ad avanzare, con la stessa forza, verso il mio ordine, tra successi e sconfitte, tra accelerazioni e brusche fermate. Ma sempre una fonte di piacere intima e profonda.
Quella fiamma, figli miei, è anche dentro di voi. E per quanto talvolta la nascondiate e soffochiate con sacchi pesantissimi di virtualità effimera, è ancora là.
Prendetevene cura, fatela crescere, alimentatela nei modi che riterrete più opportuni.
Vi prometto che non vi permetterà mai di essere foglie dimenticate che hanno preferito la terra al vento; al contrario vi renderà esploratori coraggiosi che, con il sorriso sul viso, scelgono consapevolmente di affrontare il volo per potersi espandere.
Paolo Marta
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