storia 3 . caccia allo scudetto
Nel 1971 arriva la conferma dell’assoluto livello concorrenziale raggiunto dal club; esclusi (ancora una volta dal Petrarca) dalla lotta per il tricolore, i ruggers dominano la Coppa Primavera e piegano il Rovigo nella finale di Padova.
L’importante successo, il primo veramente rilevante, rende euforico l’ambiente e scioglie ogni residua riserva sulle inevitabili conseguenze dei sacrifici e della disciplina a cui tutti si erano duramente sottoposti. Qualcuno comincia a essere convocato a vestire la maglia azzurra e, al ritorno da quelle eccezionali esperienze, trasferisce nei compagni un grande sentimento di orgoglio, nuove sicurezze e, soprattutto, più evolute competenze tattiche.
L’anagrafe ha inesorabilmente costretto i più anziani a consegnare l’amata maglietta rossa agli amici più giovani e ai nuovi arrivati, carichi di entusiasmo e di personalità, che richiamati dalle vittorie e dalla crescente popolarità della squadra si dispongono a sostituirli. Riceverla dalle loro mani assume il senso di un’autentica investitura cavalleresca.
È giunto il tempo di guardare in alto, di andare alla conquista del traguardo più importante: lo scudetto tricolore!
La squadra del campionato 71/72 edifica la propria strategia rinserrata nella trincea di una difesa aggressiva e impenetrabile, dalla quale muove micidiali accelerazioni. Con una lunga serie di vittorie contro le ben più strutturate antagoniste del girone (batte finalmente anche il temutissimo Petrarca) conquista il diritto di disputare la prima finale di Campionato della sua storia.
Si gioca a Firenze in una disgraziata domenica di fine maggio. Nell’erba alta, trascurata da mesi, l’Aquila e un arbitraggio “dilettantesco” infrangono il sogno di quegli splendidi guerrieri che al fischio finale pochi punti dividono dal sognato trionfo. Morsi da rabbia impotente sono costretti a guardare le mani degli abruzzesi sollevarsi al cielo tra le grida di giubilo.
Se si fosse lasciato per troppo tempo la delusione colare nel cuore, come un veleno incolore, la sconfitta avrebbe potuto intorpidire, forse in modo irrimediabile, lo sguardo sul futuro.
Infatti, se ai più l’insuccesso non aveva affatto minato le certezze (si trattava pur sempre di un risultato straordinario per un club nato solo tre anni prima) nell’animo di qualcuno la disillusione avrebbe potuto deprimerne il fervore. Ma anche e soprattutto in quel delicato frangente Natalino dimostrò le sue doti di vero condottiero. Non è uomo di facili rinunce e ha la testarda virtù di chi nelle difficoltà riesce ad esaltare la propria intelligenza; ha il dono di imparare rapidamente, ricavando preziose lezioni da ogni esperienza. Possiede un eloquio vibrante e immaginifico e la sensibilità di sapervi ricorrere nel momento e nel modo più utile.
Le sue ispirate parole seppero smorzare il dispetto e riaccendere l’entusiasmo nei ragazzi e quella determinazione che doveva condurli all’inesorabile riscossa.
Nel settembre 1972 – durante i primi allenamenti della nuova stagione – il sorriso era tornato a splendere dentro i loro occhi: la Tarvisium ripartiva da dove si era dovuta fermare tre mesi prima colma della stessa formidabile grinta.
La squadra contava ancora molti atleti eccellenti ed era rimasta quasi la stessa dell’annata precedente (Franco Polloni, Gigi Cagnin, “Achille” Lauro, Mario Basso e “Caio Irish” avevano purtroppo dovuto mollare, ma, tra quelli che dovevano sostituirli, solo due erano veramente degli esordienti.
«Fioi, stà partia a rapresenta el passaporto pal titolo italian!». Fu questo il “mantra” iniziale di ogni domenica, la prima frase pronunciata dal Nata dentro lo spogliatoio dove il gruppo – immerso nell’odore dolciastro dell’olio canforato e della melissa – cominciava silenziosamente a concentrarsi per due e più interminabili ore. Sotto le sopraciglia coperte di vaselina – la stessa filante vischiosa crema biancastra che impiastricciava orecchi, gomiti e ginocchia, senza che la si riuscisse a rimuovere per giorni – gli occhi tradivano una composta e consapevole tensione.
Poi, finalmente, caricati come molle, i muscoli potevano esplodere in campo tutta l’energia accumulata nella forzata reclusione.
Venezia, S. Donà, Treviso, Rovigo, Trieste, Bologna e Petrarca non riuscirono ad arrestare la marcia trionfale delle magliette rosse. Solo Rovigo impose un pareggio.
La meta valeva 4 punti e le segnature erano molto numerose. Quando non bastavano ci pensava “Long John” Favaro che aveva lunghe gambe e l’affinata tecnica di chi sapeva scavalcare ventralmente l’asticella del salto in alto. Colpiva da lontano con potenti e precise parabole e quando la cavalleria non riusciva a marcare la differenza l’artigliere recuperava per tutti campo e punteggio.
La formula finale che la F.I.R. aveva adottato per quel torneo si dimostrerà piuttosto stravagante: prevedeva una fase eliminatoria su tre gironi organizzati con criterio geografico le cui vincenti si sarebbero sfidate disputando ognuna un incontro casalingo contro una delle altre prime classificate, e una partita nel terreno dell’altra.
Al Prato, nella partita giocata al S. Lazzaro, la Tarvisium rifilò un netto 27 a 3. La settimana successiva i toscani si rifecero vincendo il Colleferro tra le mura amiche. Ora bisognava “solo” andare a vincere in quello sconosciuto paesotto – a metà strada tra Roma e Frosinone – per toccare finalmente il cielo.
Purtroppo però in quel pomeriggio di maggio la Dea della sfortuna guardò dalla nostra parte: “Mandrake” De Marchi per qualche strana e insoluta ragione mancò all’appuntamento. La squadra partì contando solo su sedici effettivi e l’impossibilità di una sostituzione si rivelerà fatale. Dentro una minuscola e terrosa “plaza de toros” la Tarvisium dovette sopportare una sorprendente e furiosa intimidazione fisica da parte di quindici indemoniati giovanottoni e del loro pubblico urlante che l’ondeggiante recinzione non sembrava poter trattenere da una pronosticabile invasione. Andò ancor peggio nella tribuna, da dove una ventina di nostri supporters fu brutalmente costretta a sloggiare in tutta fretta e da dove “Barone” fu letteralmente lanciato nel vuoto; la sua schiena ne recherà a lungo memoria.
Tra gli insulti e gli sputi che piovevano dai bordi e la serie infinita dei ben poco regolamentari contatti la squadra, ciò nonostante, conduceva per 7 a 3 a pochi minuti dal termine, quando, con un grido di dolore, Bruno Francescato si accasciò sul terreno. Lo strappo a un qualche muscolo della gamba fece impietosamente crollare uno dei nostri più solidi pilastri difensivi arretrati; nella breccia si infilò – palla in mano – il loro uomo più dotato e toccò in meta, facilmente trasformata per l’immeritato sorpasso.
A campi invertiti tutto doveva ricominciare!
Il Prato tentò di buttarla in rissa quando sentì la partita scappare di mano. Ma Colleferro aveva insegnato qualcosa e la Tarvisium mantenne calma e nervi saldi. Nuovamente sconfitti i toscani la settimana dopo rinunciarono alla trasferta romana.
Toccava ai laziali salire quassù!
Li aspettammo a Casale sul Sile (il campo di Treviso era inagibile) decisi a chiudere definitivamente i conti con loro. Era il 29 di giugno, la temperatura torrida e il fischio d’inizio previsto alle 15!!!
Li guardammo arrivare. Dentro i loro occhi si poteva scorgere una sorta di inquietudine – si aspettavano certamente di dover di dover subire l’ovvia ritorsione per quello che ci avevano riservato a casa loro. Era un ottimo segnale.
Nell’aria irrespirabile e incredibilmente elettrica dello spogliatoio, quel giorno Cadamuro non sentì alcun bisogno di usare qualcuna di quelle frasi che tante altre volte aveva invece sentito necessario rivolgere ai ruggers per innescarne la grinta. Nessuno slogan di battaglia tradì il composto silenzio di quel momento – solenne e surreale insieme. Solo poco prima di uscire “Bobi” Robazza, il capitano, riassunse per tutti, con poche parole, il senso speciale di quelle ore in maglietta rossa. Insperatamente una nuova muta di maglie sostituiva (finalmente! Quale migliore occasione?) – le ormai logore casacche indossate fino ad allora, ridotte quasi a scoloriti stracci mille volte rattoppati e senza più numero – bisognava disegnarli col cerotto ad ogni inizio di partita.
Probabilmente poco indaffarato Giove Pluvio decise di vedersi la partita e nel timore di perdersi le azioni più belle per via della coltre lattiginosa che rendeva incerti i contorni, dieci minuti prima dell’inizio scatenò uno di quei violenti temporali estivi che sembrano spaccare il mondo. Seduti nelle panche, spalla a spalla, nello sguardo la preoccupazione di uno sciagurato rinvio, i ragazzi attesero per un tempo che sembrava infinito che terminasse quella tempesta fragorosa di fulmini e d’acqua. Ma prima che il timore potesse minare la carica psicologica, improvvisamente, così come era arrivata, la bufera cessò. Le nubi nere si dissolsero nella luce celeste di un cielo purissimo. L’aria si era fatta frizzante e sopra l’orizzonte smeraldo del campo a nord, appena al di qua della schiera violetta dei monti, apparve il colorato presagio di un bellissimo arcobaleno.
Colleferro fu martellato da una serie micidiale di percussioni, frastornato da saettanti aggiramenti e in quell’ora e mezzo di gioco quasi non toccò palla. Nelle poche occasioni in cui tentò di reagire dovette sperimentare come, tra tutte le pagine del manuale del rugby, quella del placcaggio fosse stata la più profondamente studiata dai ruggers. L’arbitro De Laude aveva la dote di interpretare come nessun altro la norma del vantaggio e ci permise di mostrare come potessero essere letali i nostri rilanci.
La Tarvisium consumò la sua “vendetta” nel modo più terribile, beffando la fisica protervia dei laziali con un gioco leggero, veloce e fantasioso. Segnò 10 mete e quindici punti al piede senza subirne alcuno, marcando certamente uno dei divari più netti nella storia delle finali del rugby giovanile e iscrisse in questo modo, per sempre, il suo nome nell’albo dei CAMPIONI d’ITALIA.
Giorni indimenticabili di una lunga estate festosa attendevano finalmente i “fioi” di S. Giuseppe, che partendo dai bar del paese, in soli quattro anni, erano riusciti a issare la loro bandiera sulla vetta più alta e – soprattutto – a tracciare la rotta sicura che intere generazioni di giocatori avrebbero da allora in poi navigato per emularne le gesta, per poter vivere la stessa felice intensa giovinezza.